Scenari. Dal 2018 ... a dove va il mondo.  Incontro con Irene Piccolo, presidente di AMIStades 4

Scenari. Dal 2018 … a dove va il mondo. Incontro con Irene Piccolo, presidente di AMIStaDeS

 La collaborazione con  AMIStaDeS  ha coinciso nel 2018, con il primo evento pubblico organizzato dalla nostra testata: un “aperitivo” proposto ai cittadini e nostri lettori di Latina col titolo “La guerra mondiale a pezzi” per  descrivere una realtà comune a tutte le latitudini del globo, con scenari  troppo spesso trascurati se non del tutto silenziati.
La  dott.ssa Irene Piccolo, presidente dell’associazione fondata insieme alle colleghe Claudia Candelmo e Valentina Nardone, ci ha concesso – nelle giornate di fine anno e di trepidante attesa di questo 2019 – la lunga intervista che segue. Il miglior modo per augurarci – tutti – sempre maggiore attenzione alle dinamiche globali, così decisive per un futuro di pace.
Dott.ssa Piccolo, come descrive il 2018 nella ‘curva’ ideale dell’Informazione riservata dai media italiani  ai temi di politica internazionale?
Irene Piccolo, esperta in Protezione dei  diritti umani e Organizzazioni Internazionali, dal 2017 presidente dell’Associazione AMIStaDeS.

Considero la nostra Associazione come un osservatorio privilegiato sul mondo internazionale, poiché la sua vocazione e tutte le attività che essa propone costringono ciascuno dei suoi componenti a essere costantemente aggiornato su ciò che succede nel mondo. Questo ci consente di rilevare, ahimé, la forte discrepanza tra ciò che accade e ciò che viene selettivamente narrato. Si pensi ad esempio alla carovana di migranti che ha risalito l’America centrale diretta verso gli Stati Uniti: giorni di racconto compulsivo di questo cammino e delle minacce di Trump di schierare  l’esercito al confine sud e poi, all’improvviso, tutto si tacque. Per settimane non si è saputo se questi migranti si fossero volatilizzati nel nulla, se Trump li avesse fatti passare o avesse ordinato di fare fuoco contro di loro, fin quando non muore una bimba nei “campi di raccolta” allestiti alla frontiera con il Messico e i riflettori tornano a illuminare quel palcoscenico. Questa è naturalmente solo un’esemplificazione che però, secondo me, dà una nitida fotografia dei media nazionali: quella italiana è un’informazione a intermittenza.

Ne fa, mi sembra, un aspetto prettamente italiano…
Questo attributo dell’intermittenza è causa e, al contempo, conseguenza della polarizzazione delle opinioni, della loro espressione e dei comportamenti che ne conseguono. L’intermittenza su una singola notizia potrebbe essere graficamente riportata come un’onda che tocca la cresta quando se ne parla e precipita al suo estremo inferiore quando cade nell’oblio, per ritornare nuovamente in auge nel primo momento utile successivo e ricadere nella dimenticanza quando parlare di quella notizia non è più utile. Dove “utilità” è intesa come soddisfazione della necessità delle persone di vedere ciò che suscita emozioni forti, per cui quando queste vengono meno le notizie cadono nel dimenticatoio, per riemergere non appena si verifica un fatto che la gente “vuole” seguire.

Si può pensare a una dinamica basata su logiche ben preordinate?
Applicando la descritta intermittenza alla quasi totalità delle notizie, si può visualizzare l’”onda generale” dell’informazione che è polarizzata nei suoi due estremi, superiore e inferiore mentre – in un Paese veramente libero – la curva dei media dovrebbe essere tendenzialmente lineare, certo con alcune oscillazioni in su o in giù a seconda dell’importanza oggettiva della notizia riportata, ma tendenzialmente lineare. Ciò perché, assumendo notizie polarizzate come fossero medicine quotidiane, queste alla fine modificano il DNA delle persone circa il loro meccanismo di creazione delle opinioni e della loro espressione: una specie di contagio per osmosi. Del resto, se ci guardiamo intorno, non esistono quasi più né le opinioni intermedie né i comportamenti intermedi: solo estremi aggressivi o remissivi, e il buon senso che spesso indica la media re viene tacciato o di buonismo o di collaborazionismo con il nemico.

Immigrazione e politica. Tra slogan sovranisti e piazze votate alla difesa di confini, sembra prevalga l’attenzione alla gestione dei flussi, più che ai modi riservati all’accoglienza. Sono questi i termini del confronto fra l’Italia e l’Europa? E l’Europa, quanto è realmente sensibile alle voci dei Paesi di prima accoglienza, oltre all’Italia anche la Grecia o la stessa Spagna?
In realtà questi sono i termini che noi abbiamo deciso di utilizzare con l’Europa, da un lato dettati da una legittima e comprensibile esasperazione di fronte alla parziale cecità dell’Europa stessa, dall’altro lato perché la teoria del nemico paga sempre in termini di consenso e di successo elettorale.

Vi sono materie in cui l’Europa non ha competenza esclusiva, ma concorrente, ossia essa decide su alcuni aspetti mentre su altri sono i singoli Stati a decidere se e quanto vogliono fare una politica condivisa e solidale o sceglierne una   che potremmo definire egoistica.

Al contempo, l’accordo o meno sulle singole questioni è lampante se si guarda agli atti giuridici adottati: per quanto riguarda le richieste d’asilo da parte di persone che entrano illegalmente in un Paese, con annessi e connessi (il c.d. “Sistema Dublino”), siamo di fronte a un regolamento, vale a dire un atto direttamente efficace e direttamente applicabile in ogni Stato su cui quest’ultimo non ha alcun margine di manovra. In più, il regolamento di Dublino recepisce una precedente convenzione firmata dai singoli Stati, per cui il presupposto è che ci fosse accordo tra gli Stati nel darsi quelle regole. Alla luce di ciò, è intellettualmente onesto presentarci come vittime di un sistema se noi per primi abbiamo dato il nostro assenso a quelle regole, e questo consenso è stato prestato senza che nessuno ci puntasse la pistola alle tempie? Proporre una ridiscussione di regole che l’esperienza pratica ci ha dimostrato non funzionare è giusto, legittimo e sacrosanto; dichiararsi in toto vittime di un sistema è invece quantomai strumentale e ipocrita.

 

Si può parlare di un’Europa ancora indietro, nella costruzione della sua stessa unitarietà politica?
Quando l’accordo tra gli Stati è meno pieno, in genere si producono direttive (si pensi alla c.d. “Direttiva qualifiche” sull’attribuzione dell’asilo e della protezione internazionale), ossia atti giuridici in cui l’Unione indica un obiettivo da raggiungere ma le modalità vengono decise dagli Stati singolarmente, nel momento in cui recepiscono la direttiva. Questo, da un lato, dà margine di manovra agli Stati, ma dall’altro rischia – nel caso i Paesi membri abbiano convinzioni opposte – di creare disomogeneità nel quadro generale e quindi trattamenti difformi di Paese in Paese.

Poi ci sono questioni in cui conta solo e unicamente la volontà del singolo Stato membro, quali il ricollocamento dei migranti o l’attivazione del principio di sovranità previsto dal Sistema di Dublino, quella “clausola” che consente ai singoli Stati membri non di primo ingresso di accogliere volontariamente una quota di migranti entrati illegalmente sul suolo europeo – si pensi alla mossa della Merkel di aprire il confine tedesco per un certo periodo di tempo.

 

Ma senza effettiva unanimità dei Paesi per un  dialogo verso le masse  che premono per entrare, come può individuarsi una ‘linea europea’ sul tema immigrati?
È questo il motivo per cui, all’incontro “straordinario” convocato a giugno 2018, in seguito alla vicenda Acquarius, si presentarono solo 16 Paesi (rispetto ai 27-28 che compongono l’Unione): erano gli Stati c.d. “volenterosi”, quelli che una soluzione volevano almeno provare a trovarla. Il vertice invece fu disertato da coloro che già si erano detti contrari a qualunque aiuto nel ricollocamento, i quattro di Visegrad (Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca) in primis. Ciò significa che il vero atteggiamento di chiusura non è da parte dell’Unione Europea in quanto organizzazione internazionale, la quale invece porta avanti un’estenuante opera di mediazione tra gli Stati, bensì da parte di singoli Paesi che fanno saltare o spesso non fanno proprio partire i tavoli di trattativa.

Un episodio significativo, in tal senso, è secondo me la sentenza con cui a settembre 2017 la Corte di giustizia dell’UE ha respinto il ricorso presentato da Ungheria e Repubblica slovacca: i due Stati infatti avevano impugnato una decisione presa a beneficio di Italia e Grecia, in cui il Consiglio UE stabiliva il ricollocamento di quote di migranti dopo l’ingente afflusso migratorio del 2015. Ciononostante, né Ungheria né Slovacchia hanno mai preso la parte di migranti loro spettante.

 

Come a dire: punti fermi ci sono ma la costruzione ha tempi ancora lunghi.
L’Europa naturalmente potrebbe fare di più, ma si provi a immaginare Bruxelles come un genitore che deve provare a fare andare d’accordo, senza alcun potere di coercizione sul punto, 27-28 figli tutti maggiorenni e quindi liberi di fare quel che pare loro.

Allo stesso tempo, i singoli Stati possono essere visti come i coinquilini di uno stesso appartamento che hanno deciso di comune accordo il piano delle pulizie settimanali, e gli Stati di primo ingresso sono quelli che hanno accettato (non si sa per quale bizzarro cortocircuito mentale!) di occuparsi sempre loro di pulire il bagno. Dopo aver preso coscienza dell’insostenibilità della cosa, anziché cercare di rivedere l’accordo puntando sul supporto di chi è disponibile a fare qualche turno al posto loro, decidono di allearsi con quelli che questa disponibilità non ce l’hanno: la revisione del piano delle pulizie diviene impossibile.

 

In questo quadro, è inserita l’Italia …
L’Italia sta attualmente tenendo la scelta di … rifiutarsi di pulire il bagno, il che comporta un aggravio per gli Stati che sono in simili condizioni (Grecia e Spagna) che oltre a fare i loro turni devono coprire anche quelli dell’Italia; qualche volta Stati come Francia e Germania danno una mano, sebbene non siano, secondo il ‘programma delle pulizie’, tenuti a farlo. Risultato dell’operazione: siamo solo molto più sporchi.

Andiamo in America. Dopo le elezioni di medio termine di novembre scorso, Trump sarà – alla fine – più forte di Russiagate, degli scandali e delle verità svelate dai suoi ex-avvocati, o ne verrà comunque investito senza ritorno, anche guardando alla corsa per un secondo mandato
Trump è l’incarnazione perfetta della c.d. campagna elettorale permanente.
Scenari. Dal 2018 ... a dove va il mondo. Incontro con Irene Piccolo, presidente di AMIStades 1Il suo modo di condurre la politica americana (e dico volutamente “politica” anziché Stato o amministrazione) è palesemente volto a una continua sollecitazione emotiva dell’elettorato, puntando sulla polarizzazione delle opinioni, della loro espressione e dei comportamenti, di cui si parlava prima. Non c’è un momento di quiete per i cittadini americani: la loro attenzione è sempre puntata su qualcosa, che sia uno scandalo, un’invasione di migranti al confine, una minaccia commerciale vera o presunta di matrice cinese, e si potrebbe continuare all’infinito. Personalmente, pertanto, non credo che il Russiagate o le altre disavventure trumpiane possano segnare il suo declino politico; tutt’altro. Sempre nell’ottica della teoria del nemico citata prima, questi scandali sono tutte possibilità concrete offertegli per presentarsi all’elettorato come vittima perseguitata dal sistema che egli tenta di cambiare.

Al momento non credo si possa dire che le elezioni di mid-term abbiano tracciato i binari di una tendenza ben definita verso un cambio al vertice, però hanno lanciato indubbiamente dei segnali. Il più importante, a mio avviso, è che anche i democratici hanno capito di dover parlare alle emozioni, perché non puoi sconfiggere sul piano razionale chi la razionalità non la utilizza, e viceversa.

 

Per esempio?
Guardiamo all’elezione che si è avuta di politici che potenzialmente possono divenire simboli, una su tutti Alexandria Ocasio-Cortez.
Simboli di cosa? Di diritti. Scenari. Dal 2018 ... a dove va il mondo. Incontro con Irene Piccolo, presidente di AMIStades 2Diritti delle donne, diritti delle persone di colore, diritti dei giovani, diritti dei poveri, e via dicendo. Si potrebbe affermare che tali diritti sono sempre stati nell’agenda dei democratici, ma è proprio qui che è maturata e si è materializzata la vittoria di Trump. Finché i diritti sono solo parole inserite in un’agenda, narrazioni piatte all’interno di un discorso elettorale, termini naif usati da “intellettualoidi”, sono concetti totalmente privi di valore. Abusati e svalutati. Nel momento in cui questi diritti vengono narrati sul piano emotivo, invece, diventano concreti; le persone iniziano a sentirli e percepirli. È qui appunto che Trump ha vinto: ha “parlato” concretamente, non astrattamente.

 

In passato, questo riusciva ai democratici.
Si pensi a Martin Luther King (e voglio vincere facile!): quando ha portato in strada decine di migliaia di neri d’America lo ha fatto parlando solo e soltanto alle loro teste o ha parlato anche e soprattutto alle loro emozioni? L’emozione in politica non va né svalutata né messa a tacere, ma va considerata come componente essenziale (esattamente come in economia): la razionalità entra in campo e diviene fondamentale quando si tratta di gestire quelle emozioni e di rappresentare le istanze che da quelle emozioni sono sostenute. E qui sta la debolezza di Trump: egli ha una gestione emotiva, non governa le emozioni che suscita, si limita a cavalcarle, fomentando un caos che non riesce a gestire ma di cui si alimenta fintantoché non arriverà qualcuno in grado di governare questo caos e riportare a un bilanciato matrimonio tra emotività e razionalità in politica.

Nelle elezioni di mid-term i democratici hanno dato il segnale di aver individuato la strada; ora bisogna solo stare a vedere se nei prossimi due anni saranno in grado di tramutare l’idea giusta in qualcosa di concreto o se, invece, prenderanno la via opposta ricadendo nel vizio classico, che affligge più i democratici dei repubblicani, di cristallizzare l’idea in ideale fissato nel mondo iperuranico e che l’operaio di Detroit non potrà mai afferrare.

 

La Cina, sulla scia di un trentennio di un’inarrestabile crescita economica, tiene testa al PIL degli stessi USA. Per l’Europa problematica di oggi, che ruolo è dato realisticamente prevedere per il 2019?
Ad oggi, temo che il continente europeo sia troppo occupato a lottare al proprio interno per potersi occupare realisticamente del suo ruolo all’esterno. Anche la Germania, che sembra rispondere perfettamente ai parametri di Maastricht e relativi “aggiornamenti”, in realtà fatica giacché la sua economia ha trend positivo solo e unicamente per il suo surplus commerciale (vale a dire che le sue esportazioni sono nettamente superiori alle importazioni). Esaminando le altre componenti della domanda aggregata tedesca, invece, si deve rilevare che la produttività interna in termini di posti di lavoro ecc. non è sufficiente ad avere un bilanciamento rassicurante, ossia l’economia tedesca basandosi prevalentemente sulle esportazioni è nel concreto dipendente dai Paesi che acquistano i suoi prodotti. Qualora questi acquisti venissero meno, per una qualunque ragione, la Germania dovrebbe fare i conti con un mercato interno non in crisi seria ma neppure florido.

Ne consegue che se questa è la fotografia macroeconomica del Paese che è considerato il motore dell’economia europea, allora per il resto del continente non c’è di che ben sperare. A maggior ragione se ci si focalizza sulle dispute e le divisioni attualmente in corso proprio sulle tematiche economiche.

 

Come leggere l’imminente cambiamento dell’intervento fin qui operato dalla BCE a sostegno delle economie meno forti, come la nostra.
Non è difficile prevedere che le dispute che probabilmente si acuiranno con la cessazione del quantitative easing a fine dicembre 2018, che è stato un aiuto concreto dalla Banca Centrale Europea ai Paesi più in difficoltà come l’Italia. Per non dire delle elezioni europee della prossima primavera   che vedranno come protagoniste indiscusse delle campagne elettorali nazionali due tematiche: migrazioni ed economia.

Ecco, personalmente credo – pur non essendo una persona pessimista per natura – che l’Europa per il 2019 possa darsi al massimo l’ambizione di mantenere la posizione che ha, ossia nel suo complesso terza economia mondiale (per mera mancanza di concorrenti che abbiano la medesima estensione geografica, non per meriti) cercando di rinsaldarsi al suo interno, sebbene le intenzioni palesate da molti politici non lascino presagire sviluppi in tal senso.

 

Tre parole per descrivere Brexit. Ma, alla fine, abbiamo effettivamente compreso le ragioni di una scelta che ha perso, lungo la via, vigore e convinzione? La Primo Ministro Theresa May era, insomma, una predestinata al fallimento?

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La Premier britannica Theresa May con il presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker

Errore di valutazione: questa la mia definizione in tre parole.

Errore di valutazione innanzitutto di Cameron che propose il referendum, pressoché certo che il “Remain” avrebbe vinto a mani basse.

E qui si è riprodotto, sebbene su scala diversa, lo stesso fenomeno che ha portato qualche mese dopo all’elezione di Trump: le campagne hanno votato per chi emotivamente le aveva sollecitate nel concreto, ossia per il “Leave” che, mettendo in risalto i difetti del sistema europeo, ha saputo presentarne una traduzione concreta agli elettori. Cosa che invece i fautori del “Remain”, fermi a quei diritti quali sterili parole in un’agenda politica di cui si parlava prima, non sono riusciti a fare. Avrebbero dovuto – di tutta risposta – tradurre in concreto i benefici dell’Europa: ad esempio i sussidi agricoli che gli stessi agricoltori inglesi, quindi i primi abitanti delle campagne, ricevono. Anch’essi hanno dunque fatto un errore di valutazione.

All’avvio dei negoziati per l’uscita dall’Unione, tutto il Regno Unito si è, infine, concretamente reso conto di questo errore di valutazione e le fatiche fatte dalla May nella contrattazione sono solo la punta dell’iceberg. Difatti sono venute alla luce le problematiche legate: a Gibilterra, in cui oltre il 90% della popolazione aveva votato contro la Brexit e sui cui destini la Spagna ha voce in capitolo, giuridicamente parlando; alla Scozia, che nel referendum del 2014 non aveva votato a favore della tanto agognata indipendenza soprattutto perché uscire dal Regno Unito avrebbe significato uscire dall’Europa e perdere i vantaggi che da questa appartenenza derivavano, Scozia che adesso si sta attrezzando per chiedere un nuovo referendum, staccarsi dal Regno Unito e chiedere l’ingresso nell’UE; all’Irlanda del Nord, che è stata lungo oggetto del contendere, giacché il Trattato del Venerdì Santo tra EIRE e Ulster vietava la costruzione di frontiere fisiche tra le due Irlande e, qualora Bruxelles non avesse ceduto circa la necessità di costruire una frontiera a protezione del mercato comunitario, avrebbe potuto portare l’Irlanda del Nord a chiedere la riunificazione con l’EIRE.

Certo, è innegabile  che il referendum ha aperto e  approfondito le questioni politiche, economiche e giuridiche già sul tappeto e  la May si è trovata a doverle contenere tutte. Francamente, credo che quello raggiunto sia l’accordo migliore che potesse ottenere, se si tiene conto delle carte che aveva nel suo mazzo. Difatti comunemente si crede che, avendo la City ed essendo un “grande” Paese, il Regno Unito avesse in questa trattativa il coltello dalla parte del manico. Ma non è affatto così. L’Europa è lentamente ma capillarmente entrata nelle nostre vite e ne ha condizionato, il più delle volte in meglio, la qualità. Pertanto uscirne significa anche rinunciare a tanti benefici che gli individui emotivamente percepirebbero. La May avrebbe anche potuto effettuare un’uscita tranchante, senza stare a negoziare su ogni singolo punto, ma questo si sarebbe tradotto in una sottrazione immediata di benefici quotidiani cui alcuni cittadini britannici erano abituati sin dalla loro nascita e che altri, dopo decenni, avevano assimilato al 100%. Toglier loro tutto ciò d’un tratto avrebbe come minimo portato a una sommossa popolare.

 

Il 2019 è quello delle elezioni UE per le quali appare diffuso il clima da… ‘prima i sovranisti’. Dagli scenari più recenti dei gilet francesi sotto l’Arco di Trionfo fino alla destra tedesca clamorosamente tornata, dai tempi della guerra, a sedere nel Bundestaag, non può sfuggire il mutamento di clima verso l’Istituzione e la sua attuale leadership. Esiste una credibile proposta politica capace di rilanciare quello spirito europeo che fu dei fondatori dell’Unione e in cui tanto credeva il giovane giornalista Antonio Megalizzi, vittima nel tragico attentato di Strasburgo?
Scenari. Dal 2018 ... a dove va il mondo. Incontro con Irene Piccolo, presidente di AMIStadesAnche qui sarò piuttosto franca e apparentemente pessimista. Allo stato attuale no, non esiste una credibile risposta politica che sia capace di fare ciò o, se c’è, io non sono in grado di vederla.

Ci sono certamente tanti semi che in tal senso possono credibilmente e auspicabilmente germogliare, ma ancora devono trovare una loro esatta collocazione e solo dopo tramutarsi in qualcosa di più simile a un movimento politico o d’opinione.

Guardando alla Storia e credendo fortemente nel concetto dei corsi e ricorsi, sono pressoché certa che una “crisi”, non tanto economica quanto di valori da condividere, di principi in cui identificarsi, di diritti da esercitare, quindi in paucis una crisi di identità dell’individuo singolo e conseguentemente delle Istituzioni in cui i singoli individui dovrebbero nel loro complesso rivedersi, genera sempre contesti in cui si è “costretti” a prendere delle decisioni, a fare delle scelte. La parola viene dal greco krísis, appunto “scelta, decisione”.

Fino ad oggi, dopo un secondo dopoguerra in cui i Padri costituenti (sia quelli italiani sia quelli europei) hanno preso delle scelte per il futuro dei loro popoli, nessuno più ha scelto, perché scegliere/decidere comporta anche l’assunzione della responsabilità delle scelte fatte. Si è preferita, negli ultimi decenni, la tecnica dello scaricabarile, soprattutto dello scaricabarile sull’Europa, non rendendosi conto che l’Europa che decide non è niente di più e niente di meno che i rappresentanti dei singoli Stati che, non riuscendo ad agire in modo totalmente imparziale a beneficio di tutti, nel tentativo di fare il bene solo del proprio Paese di appartenenza non riescono a fare il bene di nessuno. Quando invece poi agiscono nel bene del singolo partito politico che rappresentano, allora oltre a non riuscire a fare bene a nessuno, fanno anche danno.

Quindi se una responsabilità va data, va data non all’Europa in quanto tale ma ai rappresentanti nazionali, italiani inclusi, che andando lì hanno deciso di non decidere, senza rendersi conto che anche la non decisione era comunque una scelta. Inconsapevole, certo, ma pur sempre una scelta. E oggi paghiamo proprio il fatto di aver subito le conseguenze di scelte fatte senza consapevolezza.

È giunta l’ora di tornare a decidere, di assumersi la responsabilità delle scelte che si fanno e di farle nella conoscenza degli errori passati e nella consapevolezza degli effetti futuri. Conoscenza e consapevolezza, due prerequisiti di cui oggi vi è assoluta e pericolosa penuria, specialmente nel panorama italiano.

 

  • intervista raccolta da Annalisa Romaniello