Padova e la Cappella degli Scrovegni: quando una lacrima fa dell’arte pura poesia 3

Padova e la Cappella degli Scrovegni: quando una lacrima fa dell’arte pura poesia

Padova e la Cappella degli Scrovegni: quando una lacrima fa dell’arte pura poesia

Una lacrima che riga il volto delle donne ne “La Strage degli Innocenti”: è questa la vera maestranza giottesca, un dettaglio a prima vista irrilevante, ma che nessuno ha osato rappresentare mai prima d’allora nei propri disegni, forse perché timoroso di sbagliare o, ancora, perché consapevole di non potercela fare, chissà… È la prima lacrima a solcare le guance di un soggetto artistico: le emozioni diventano pathos quando le donne piangono. Nella Cappella degli Scrovegni, caposaldo dell’arte trecentesca e fondamento per quello che in seguito Masaccio e Brunelleschi definiranno “prospettiva”, Giotto porta a compimento la sua maturazione artistica, prima iniziata nella Basilica Superiore ad Assisi.

Padova si fa custode di uno degli esempi forse meglio riusciti del Bello italiano, un’arte che travalica la statica bidimensionalità bizantina per trovare la sua applicazione migliore nella profondità, nell’uso sapiente di colori, nelle emozioni, nella gestualità dei corpi; corpi che, finalmente, occupano uno spazio preciso. Ne è un esempio il Compianto sul Cristo morto, scena in cui le linee-forza di destra e di sinistra fissano i corpi in uno spazio determinato e la mimica facciale dice molto più di qualunque altra cosa.
San Giovanni, al centro della rappresentazione e muto nel suo logorante dolore, spalanca le mani in un atteggiamento di incredulità, sinceramente incredulo che Cristo sia morto. Le donne che danno di spalle allo spettatore concorrono a creare quella profondità già avvertita in altre opere giottesche: l’autore non si limita a presentare frontalmente i personaggi, ma li coinvolge, anzi, in uno spazio determinato. Tutti, e in tutti i modi, piangono e ricordano un Cristo morto, tenuto per la testa da Maria che sembra quasi volerlo baciare per l’ultima volta. Dettaglio non meno importante, lo sciame indistinto e caotico di angioletti che si turbano in aria carica l’opera di emozione: alcuni urlano il loro muto dolore, altri si tappano timorosi le orecchie, altri ancora preferiscono non guardare, altri spalancano in aria le braccia: la morte di Cristo ha dato fastidio a tutti, sia in Cielo che in Terra.

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Se da una parte Giotto vuole far sentire l’emozione, cosa assolutamente non presente nell’iconografia statica della passata arte bizantina, d’altra parte non dimentica però la committenza: Trecento e Quattrocento in seguito sono secoli in cui la potenza fa uso dell’arte per affermarsi dove non riuscirebbe; è un’arte, questa, sottomessa alle dipendenze del pubblico e del privato, un’arte che, in primis, deve elogiare il potente che la commissiona. Ciò equivale a dire una cosa, e cioè che l’artista non è mai libero, ma anzi dipende dal signore che gli da i soldi, da colui il quale decide di pagargli il lavoro.
Con Giotto succede proprio questa cosa: Cappella degli Scrovegni perché è di Enrico Scrovegni, persona conosciuta e influente a Padova nonché figlio di un già presente Rinaldo Scrovegni, avido usuraio citato addirittura da Dante nel XVII Canto dell’Inferno: alla morte di Rinaldo, e questo è quanto riportano le parole di Pietro Selvatico, la sua casa venne presa d’assalto dalla folla inferocita. Enrico si fa ritrarre fiero mentre dona il modellino della Cappella alla Madonna: è qui che entra in gioco l’elemento encomiastico, qui Giotto celebra Enrico per la sua magnanimità davanti la Madre di Cristo. Voci dicono che Enrico abbia fatto costruire il complesso della cappella per redimere il padre Rinaldo dal peccato; si discute tutt’ora sulla veridicità di questa fonte, ma si è comunque certi che quella della cappella fu una funzione pubblica.

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Se c’è qualcosa di attuale che Giotto, attraverso la sua arte, ha voluto insegnarci, questo sono i vizi umani, vizi da lui rappresentati nelle rispettive vignette: l’Invidia appare dunque come una donna bruciata ai piedi da del fuoco e dalla cui bocca fuoriesce un serpente che le morde la fronte. Giotto ci parla nella sua più sincera tranquillità, dando al linguaggio di colori e forme definite e ben rese la forza sempre presente del Bello italiano, una bellezza che, seppur nella sua ovvietà, non finisce mai di sorprendere e non stanca affatto.

Francesco Zaralli

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