Montedison di Bussi: storia della discarica più grande d'Europa

Montedison di Bussi: storia della discarica più grande d’Europa

Quando si parla di disastri ambientali siamo abituati a rivolgere la nostra attenzione alla cosiddetta “Terra dei fuochi”, quella zona della Campania nella provincia di Caserta tristemente nota per l’altissimo tasso di mortalità infantile causata dai tumori. Promesse, visite istituzionali, manifestazioni delle madri sopravvissute alle loro creature: tutto caduto nel vuoto, di bonifica nemmeno l’ombra.
Basta però scorrere le cronache del Paese e rendersi conto però che purtroppo non esiste una sola terra dei fuochi.
In una terra definita “la Regione dei Parchi”, il polmone verde d’Europa si annida una minaccia alla salute e all’ecosistema di dimensioni ancora difficili da quantificare: la maxi discarica Montedison.
Da “Polmone verde d’Europa” a regione con la “più grande discarica d’Europa”.
Per comprendere meglio la vicenda, tornata alla ribalta negli ultimi giorni dopo l’ultima pronuncia della Corte di Cassazione, facciamo un passo indietro, ripercorrendo quella che è stata la tragica storia del polo chimico di Bussi.
L’attività industriale nell’area è abbastanza antica, se pensiamo alla vera industrializzazione della Regione avvenuta con gli anni Sessanta: già nel 1901 erano state inaugurate le “Officine di Bussi sul Tirino”, in cui si produceva energia elettrica attraverso il clorito sodico (potente disinfettante) e l’acido cloridrico.
Negli anni del Fascismo a partire dal periodo coloniale, il sito verrà utilizzato per la produzione del cosiddetto “gas mostarda”, un acido estremamente dannoso per l’uomo, capace di corrodere la pelle e man mano distruggere rapidamente le cellule di un individuo.
In piena guerra, ci pensarono le truppe tedesche a smantellare completamente lo stabilimento: è il 1943.
L’opera di ricostruzione di un’industria considerata evidentemente strategica ebbe inizio subito dopo la fine del conflitto, con il recupero di parte dei macchinari trafugati all’estero e con l’aggiunta di nuovi impianti destinati alla produzione di ipoclorito, clorati e, successivamente, carburo di calcio, perclorati, cloruro ammonico, dicloroetano e acido monocloroacetico.
Il 1962 è l’anno di esordio della allora Montecatini, che diede l’avvio a un vasto programma di rinnovamento e di espansione con l’installazione di nuovi impianti per la produzione di cloro, clorometani, cloruro ammonico, piombo tetraetile, trielina. Nel luglio 1966 fu costruita la SIAC (Società Italiana Additivi per Carburanti) che assunse la gestione del settore produttivo piombo-alchili di Bussi; contemporaneamente il 50% del suo capitale sociale veniva acquisito dalla Associated Octel Company di Londra operazione che portò ad una impennata nella produzione del piombo tetraetile, alla quale si aggiunse, in un secondo momento, quella del piombo tetrametile.
Di poco successivi sono inoltre gli impianti per la produzione di acqua ossigenata perborato di sodio del silicato e metasilicato di sodio.
Un insediamento industriale così produttivo, ed attivo ufficialmente fino al 2002 necessitava però di imponenti risorse finalizzate allo smaltimento di rifiuti cosiddetti “speciali”. Non è difficile infatti comprendere come le produzioni che si erano succedute nell’area fossero quantomeno “rischiose” per l’uomo.
Furono così autorizzate due discariche nel 1987 dalla Regione Abruzzo in due aree circostanti, che presero il nome di “2A” e “2B”. Invasi autorizzati certo, ma non per questo sicuri, e diremmo oggi a norma.
Solamente nel 2007 però venne a galla in maniera ufficiale ciò che tutti ben sapevano: per oltre quarant’anni (senza contare i precedenti!) la Montedison aveva interrato nell’area di 17 ettari a rischio idrogeologico (giusto per restare su fatti più recenti: anche l’area di Bussi fu colpita dal terremoto dell’Aquila del 2009) veleni di ogni tipo, residui pericolosi, tonnellate e tonnellate di scorie.
Questi rifiuti sono confluiti nel vicino fiume Tirino, importante affluente del Pescara, e con altissima probabilità ai vicini pozzi dell’acqua potabile – chiuso solamente poco più di dieci anni fa – che rifornivano d’acqua tutta la Valpescara.
Nel frattempo per decine di anni migliaia e migliaia di persone hanno bevuto inconsapevolmente acqua con massicce dosi di clorurati, tricloroetilene, cloroformio, cloruro di vinile e altri agenti cancerogeni.
Moltissime di queste persone ad oggi si sono ammalate, o vivono nell’angoscia di scoprire una patologia oncologica: aprire semplicemente un rubinetto ha avuto per loro conseguenze devastanti.
Lentamente la macchina della giustizia si è messa in moto, e per anni ha prodotto risultati altalenanti.

 

Alla lunga vicenda giudiziaria di questa immane tragedia ambientale è dedicato il secondo e conclusivo appuntamento della nostra indagine che verrà pubblicato martedì 16 ottobre.