CASO ILVA: sentenza epocale della Consulta (e tanto silenzio sui media!)

Il favor lavoratoris in due recentissime decisioni della Consulta.

Pasquale Lattari*
 ll favor lavoratoris, costituisce un principio generale dell’ordinamento e si ispira ai principi della Costituzione in tema di rapporti economici, finalizzato ad equilibrare la posizione economica di inferiorità del lavoratore rispetto al datore di lavoro (cfr Cass.12900 del 2016); e tuttavia dal le sentenze della Consulta si ricava che il principio va coniugato con altri beni costituzionali: il lavoratore quale parte debole del rapporto di lavoro e del contenzioso del lavoro – pur essendodestinatario di norme specifiche di vantaggio – non può essere tuttavia destinatario di trattamenti o norme favorevoli generalizzate.
1 –  La sentenza 86 del 23 aprile 2018 su job act.
La Corte Costituzionale ha giudicato il job act e, in particolare, la modifica apportata all’art. 18 statuto lavoratori circa la natura giuridica – da retributiva a risarcitoria – delle somme di denaro che il datore di lavoro è tenuto a corrispondere per il periodo intercorrente dalla pronuncia di annullamento del licenziamento e di condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro fino alla ripresa effettiva del lavoro.Il favor lavoratoris in due recentissime decisioni della Consulta. 2
Il giudice di Trento ha dubitato di tale norma invocando l’intervento della Consulta perchè la qualificazione delle somme in termini risarcitori contrasterebbe con l’art. 3 della Costituzione.
Afferma la Consulta che: “È ben chiaro, infatti, quel che il rimettente richiede ai fini della auspicata reductio ad legitimitatem della disposizione censurata: e, cioè, una pronuncia “sostitutiva”, che sostanzialmente ripristini l’originario contenuto precettivo dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, per il quale il datore di lavoro, non ottemperante all’ordine di reintegrazione, «è tenuto inoltre a corrispondere al lavoratore», per il periodo dalla data stessa di tale provvedimento e fino alla reintegrazione, non già, come nel testo attuale, «un’indennità risarcitoria», bensì «le retribuzioni dovutegli in virtù del rapporto di lavoro». Retribuzioni che, ai fini della rilevanza della questione, il giudice a quo ritiene, appunto, irripetibili in caso di riforma della pronuncia di annullamento del licenziamento, in applicazione dei principi posti dall’art. 2126 cod. civ., secondo l’orientamento espresso dalle sezioni unite della Corte di cassazione, con la sentenza 13 aprile 1988, n. 2925”.
L’art. 2126 cc afferma che l’annullamento del contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto di lavoro ha avuto esecuzione in quanto – afferma il remittente – l’art. 2126 cc si  applica anche alla mancata ottemperanza da parte del datore di lavoro all’ordine del giudice sul presupposto che la disponibilità del lavoratore a riprendere servizio fosse equiparabile all’effettiva prestazione lavorativa.
La quaestio non è puro ragionamento accademico ma ha chiara rilevanza economica di non poco conto incidendo sul dovere o meno di restituire tali somme!!
La Consulta afferma che il giudice di Trento non tiene conto della lettera del nuovo articolo 18 statuto lavoratori e della giurisprudenza della Corte di cassazione circa il rapporto di lavoro affetto da nullità che “può rientrare nella sfera di applicazione dell’art. 2126 cod. civ. unicamente nel caso, e per il periodo, in cui il rapporto stesso abbia avuto «materiale esecuzione» (ex plurimis, sezione ​lavoro, sentenze 21 novembre 2016, n. 23645; 30 giugno 2016, n. 13472; 25 gennaio 2016, n. 1256; 3 febbraio 2012, n. 1639; 11 febbraio 2011, n. 3385). Il che è in linea con la nozione di retribuzionericavabile dalla Costituzione (art. 36) e dal codice civile (artt. 2094, 2099), per cui il diritto apercepirla sussiste solo in ragione (e in proporzione) della eseguita prestazione lavorativa.”
Conclude la Corte costituzionale: “La disposizione di cui al novellato quarto comma dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 con il prevedere che il datore di lavoro, in caso di inottemperanza all’ordine (immediatamente esecutivo) del giudice, che lo condanni a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro, sia tenuto a corrispondergli, in via sostitutiva, una «indennità risarcitoria» – non  è dunque “irragionevole”, come sospetta il rimettente, bensì coerente al contesto della fattispecie  disciplinata, connotata dalla correlazione di detta indennità ad una condotta contra ius del datore di lavoro e non ad una prestazione di attività lavorativa da parte del dipendente.”
Peranto la disponibilità del datore di lavoro a riprendere il servizio è sotto tale profilo irrilevante!!!
E la Corte va oltre affermando che “Neppure sussiste l’ulteriore vulnus all’art. 3, primo comma, Cost., che il rimettente sospetta arrecato dalla disposizione censurata per il profilo della disparità di trattamento che, a suo avviso, ingiustificatamente ne deriverebbe (nel quadro della sequenza tra annullamento del licenziamento e successiva sua riforma) tra il datore di lavoro che, medio tempore, adempia all’ordine di reintegrazione del dipendente e il datore di lavoro che, “scommettendo” su quella riforma, viceversa non vi ottemperi, limitandosi a corrispondere al lavoratore l’indennità risarcitoria. “
Infatti il datore di lavoro che è inottemperante alla sentenza di reintegra non ottiene la prestazione lavorativa del lavoratore e la successiva riforma della sentenza non può non tener conto di ciò … laddove invece il datore di lavoro ottemperi ottiene quale corrispettivo delle somme pagate la prestazione lavorativa che manca al datore di lavoro inadempiente.
La legittimità del nuovo art. 18 solo apparentemente è contra lavoratoris in quanto a ben vedere lo stesso – in caso contrario – avrebbe un ingiusto vantaggio patrimoniale non in linea con l’integrale riforma dell’art. 18 che precisa il carattere risarcitorio della indennità dovutagli in caso di inottemperanza da parte del datore di lavoro. Ma il favor lavoratoris o prestatoris permane e non è del tutto escluso: infatti il datore di lavoro che e inottemperante ove messo in mora dal lavoratore “può andare, a sua volta, incontro alla richiesta risarcitoria che, secondo i principi generali delle obbligazioni (artt. 1206 e 1207, secondo comma, cod. civ.), nei suoi confronti, formuli il lavoratore medesimo, per il danno conseguente al mancato reinserimento nell’organizzazione del lavoro, nel periodo intercorrente dalla statuizione di annullamento del licenziamento a quello della sua successiva riforma. “E’ bene quindi che in attesa della scelta datoriale di ottemperare o meno all’ordine di reintegra del giudice l’avvocato consigli il lavoratore a diffidare e mettere in mora ai fini dell’obbligo di ottemperanza del giudice, pur in pendenza di giudizio di appello, riservando azioni per i danni dal mancato reinserimento nel lavoro.
2 – La sentenza n. 77 del 19 aprile 2018 su spese processuali
Il favor lavoratoris in due recentissime decisioni della Consulta. 3In ambito di applicazione dell’art.92 cpc sulla condanna alle spese processuali, la Consulta si è espressa in merito affrontando la delicata questione  che, sul punto, si presenta al giudice in caso di rigetto della domanda da parte del lavoratore licenziato.
Infattila questione è stata sollevata nel corso di una controversia di lavoro avente ad oggettol’impugnativa di un licenziamento, promossa con il rito di cui all’art. 1, comma 48, della legge 28
giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di
crescita) poi conclusosi con ordinanza a conclusione della fase sommaria con il rigetto della domanda e conseguente condanna alle spese della lavoratrice ed avverso il provv.to si proponeva opposizione sollevando tra l’altro l’illegittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, cod.proc. Civ.. dove tra le questioni che comportano la compensazione delle spese – in caso di soccombenza reciproca, in caso di assoluta novità della questione trattata o in caso di mutamento della giurisprudenza – non viene in rilievo che nel giudizio di lavoro la posizione del lavoratore quale parte “debole” del rapporto controverso .”
La Consulta dichiara la incostituzionalità dell’art. 92 co.2 cpc nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti parzialmente o per intero anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni.
E tali sono anche – secondo la Consulta – altre non previste dal legislatore dell’art. 92 cpc quale la modifica del quadro legislativo in corso di causa (vd punto 15 diritto), una norma di interpretazione autentica o più in generale uno ius superveniens o una sentenza della consulta o della Corte UE o altre analoghe sopravvenienze..senza che nulla possa addebitarsi alle parti.
Ma circa la presenza del prestatore di lavoro quale parte debole del rapporto di lavoro ed anche nel contenzioso del lavoro la Consulta afferma: “Il Tribunale ordinario di Reggio Emilia evidenzia la posizione di maggior debolezza del lavoratore nel contenzioso di lavoro e chiede che la disposizione censurata sia ricondotta a legittimità introducendo un’ulteriore ragione di compensazione delle spese di lite che tenga conto della natura del rapporto giuridico dedotto in causa – ossia del rapporto di lavoro subordinato – e della condizione soggettiva della parte attrice quando e il lavoratore che agisce nei confronti del datore di lavoro.
La questione è posta con riferimento al principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma Cost. che esigerebbe – secondo il giudice rimettente un trattamento differenziato, ma di vantaggio, per il lavoratore in quanto soggetto più “debole”, costretto ad agire giudizialmente, mentre il censurato art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. avrebbe in concreto l’effetto opposto.
La Consulta ritiene invece tale questione non fondata.
Rileva in proposito da una parte il generale canone della par condicio processuale previsto dal secondo comma dell’art. 111 Cost.  secondo cui «[..] ogni processo si svolge […] tra le parti, in condizioni di parità». Per altro verso la situazione di disparità in cui, in concreto, venga a trovarsi la parte “debole” ossia quella per la quale possa essere maggiormente gravoso il costo del processo, anche in termini di rischio di condanna al pagamento delle spese processuali, sì da costituire un’indiretta remora ad agire o resistere in giudizio trova un possibile riequilibrio, secondo il disposto del terzo comma dell’art. 24 Cost., in «appositi istituti» diretti ad assicurare «ai non
abbienti […] i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione».
Tra i due principi “si colloca la disposizione censurata che, non considerando la situazionesoggettiva, nel rapporto controverso, della parte totalmente soccombente, è ispirata al principiogenerale della par condicio processuale. Anche le due richiamate ipotesi che facoltizzano il giudice a compensare, in tutto o in parte, le spese di lite le quali, a seguito della presente dichiarazione di illegittimità costituzionale, sono non più tassative, ma parametriche di altre analoghe ipotesi di «gravi e eccezionali ragioni» – rinviano comunque a condizioni prevalentemente oggettive e non già a situazioni strettamente soggettive della parte soccombente, quale l’essere essa la parte “debole” del rapporto controverso.”

La qualità di “lavoratore” della parte che agisce (o resiste), nel giudizio avente ad oggetto diritti ed obblighi nascenti dal rapporto di lavoro, non costituisce, di per sé sola, ragione sufficiente – pur nell’ottica della tendenziale rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale alla tutela giurisdizionale (art. 3, secondo comma, Cost.) – per derogare al generale canone di par condicio processuale quanto all’obbligo di rifusione delle spese processuali a carico della parte interamente soccombente.
La considerazione che sovente il contenzioso di lavoro possa presentarsi in termini sostanzialmente diseguali, nel senso che il lavoratore ricorrente, che agisca nei confronti del datore di lavoro, sia parte “debole” del rapporto controverso, giustifica norme di favore su un piano diverso da quello della regolamentazione delle spese di lite, una volta che quest’ultima e resa meno rigida a seguito della presente dichiarazione di illegittimità costituzionale del secondo comma dell’art. 92 cod. proc. civ. con l’innesto della clausola generale delle «gravi ed eccezionali ragioni».
D’altronde disposizioni di favore già sussistono: il contributo unificato per le spese di giustizia è ridotto alla metà per le controversie individuali di lavoro o concernenti rapporti di pubblico impiego; vi è esonero di pagamento di onorari, spese competenze nei giudizi per prestazioni previdenziali ex art. 152 disp.att.ne cpc.“.
Più in generale può dirsi che e rimesso alla discrezionalità del legislatore ampliare questo favor praestatoris, ad esempio rimodulando, in termini di minor rigore o finanche di esonero, il previsto raddoppio di tale contributo in caso di rigetto integrale, o di inammissibilità, o di improcedibilità dell’impugnazione (art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002)”.

La Consulta pertanto non arriva ad introdurre una deroga ulteriore alla regola della condanna alle spese in caso di soccombenza centrata sulla natura della lite, “perché controversia di lavoro, ed a favore solo del lavoratore che agisca in giudizio nei confronti del datore di lavoro.”  Tuttavia gli impulsi al giudice – a valutare tale condizione del prestatore tra le gravi ed eccezionali ragioni – ed al legislatore – a rivedere il raddoppio del contributo unificatoin caso di soccombenza – della sentenza della Consulta sono significativi. Con la speranza che non vadano ad aggiungersi ai numerosi moniti della Consulta al legislatore rimasti inascoltati.

* Avvocato civilista e penalista del foro di Latina. Autore di pubblicazioni sui temi del Lavoro e P.A., è attualmente in libreria con “Compendio di diritto disciplinare del pubblico impiego privatizzato” (Key Editore) https://www.ledmagazine.it/nellultimo-libro-di-pasquale-lattari-una-pratica-lettura-delle-norme-sul-procedimento-disciplinare-a-carico-del-lavoratore/​

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