di Serena D’Onofrio*
Proprio di questi giorni di piena estate è la sentenza “Monsanto” che ha visto – primo caso al mondo – condannata la multinazionale tedesco-americana a risarcire con 289 milioni di dollari un malato di cancro per i danni subiti dal diserbante Roundup, contente il famigerato glifosato.
Ma andiamo con ordine per comprendere meglio la vicenda. La Monsanto è una multinazionale di biotecnologie agrarie, specializzata quindi nella produzione di concimi e sementi – anche transgeniche dal 2005 – e di mezzi tecnici per l’agricoltura. Dopo il via libera dell’Antitrust americana, nel giugno 2018 la società è stata acquisita dalla casa farmaceutica tedesca Bayer con un’operazione costata ben 63 miliardi di dollari. Al termine della complessa fusione, con molta probabilità il marchio Monsanto scomparirà, anche a fronte della tempesta mediatica da cui è stato travolto negli ultimi giorni.
Al centro di tutto c’è lui: il glifosato, composto chimico che funge da erbicida totale, la cui produzione è addirittura divenuta libera nel 2001, quando è scaduto il brevetto di produzione detenuto proprio dalla Monsanto Corp. Il suo crescente impiego in agricoltura, pressoché in tutto il mondo, è legato a diversi fattori: l’apparentemente lieve pericolosità per l’uomo rispetto a prodotti dello stesso tipo, la bassa penetrazione nel suolo (parliamo di 20 cm circa), la facile degradazione, dato che viene facilmente attaccato e distrutto dai batteri presenti nel terreno, il che chiaramente rende difficile la sua ricaduta nelle falde acquifere.
Nel 2012 venne compiuto un primo studio da parte di Gilles Eric Seralini pubblicato sulla rivista Food and Chemical Toxicology, nel quale si evidenziava una grave patogenicità e cancerogenicità nei topi venuti in contatto con il glifosato. La ricerca però venne prematuramente interrotta a causa delle pesanti critiche della comunità scientifica per le “errate metodologie di utilizzo dei dati e l’affidabilità dei risultati dello studio”.
Nel 2015 l’International Agency for Research on Cancer (IARC) ha classificato il glifosato come un “probabile cancerogeno per l’uomo”, includendolo nella categoria 2° (la stessa degli anabolizzanti), in cui vengono inserite sostanze per le quali risulta una limitata evidenza di cancerogeneicità nell’uomo, controbilanciata però da una sufficiente prova di pericolosità nei test clinici sugli animali.
Nello stesso anno l’Autorità Europea per la Sicurezza alimentare ha concluso che “è improbabile che il glifosato costituisca un pericolo di cancerogeneità per l’uomo” proponendo semplicemente controlli più severi per i residui di glifosato nel cibo.
Nel settembre 2017 l’EFSA aveva pubblicato i risultati di una ricerca sulle possibili interferenze che il glifosato esercita sul sistema endocrino, concludendo che è “privo di qualsiasi proprietà distruttiva sul sistema endocrino”.
Nel novembre 2017, infine, gli studi scientifici hanno lasciato il posto all’intervento della politica, quella europea in particolare. Ben 18 Paesi dell’Unione sono stati favorevoli a estendere per un quinquennio la vendita di questo erbicida, che sarà quindi assolutamente legale fino al 2022. L’Italia e altri nove Paesi avevano votato contro la proposta della Commissione, non ottenendo però il risultato sperato. Nel nostro Paese resta comunque il divieto di uso del glifosato nelle aree frequentate dalla popolazione o da gruppi definiti “vulnerabili”, come parchi, giardini, campi sportivi e zone ricreative, aree gioco per bambini, ma anche in campagna in pre–raccolta, con lo scopo di ottimizzare il raccolto o la trebbiatura. Ovviamente tale decisione ha trovato la ferma opposizione della organizzazioni ambientaliste quali Greenpeace, la quale ha definito quel voto “un regalo alle multinazionali agrochimiche”, o Slowfood che ha bollato come “una tragedia” tale decisione.
La sentenza del Tribunale di San Francisco – di primo grado, lo ricordiamo – sembrerebbe porsi lungo questo filone. Vanno fatte però le dovute precisazioni del caso: nella sentenza non vi è alcun riferimento al rapporto causa–effetto tra utilizzo del glifosato fatto dal signor Dewayne Johnson, 46 enne giardiniere ammalatosi di un linfoma non Hodgkin alla pelle. Piuttosto si evidenzia la mancanza – tra le informazioni di legge – di avvertenze sulla potenziale cancerogenicità del prodotto, ‘particolare’ fatto oggetto di deliberati insabbiamenti da parte della Monsanto.
Uno degli avvocati dell’accusa ha infatti dichiarato che per la prima volta i giurati hanno potuto visionare documenti della Monsanto secondo i quali “la società sapeva da decenni che il glifosato, contenuto in particolare nel Roundup, può provocare il cancro”. Monsanto farà ovviamente appello, basandosi su numerosi studi scientifici, soprattutto per evitare che questo sia solo l’innesco di una valanga di risarcimenti milionari con ben 5000 denunce sul tema già a carico della società
Fino al 2022, data che potrebbe finalmente cambiare l’approccio dell’Unione Europea al glifosato, di certo i consumatori continueranno a fare i conti ogni giorno con alimenti come pasta, pane e birra contenenti residui di questo erbicida. L’esposizione al glifosato non è limitata quindi solo agli addetti ai lavori del mondo agricolo, ma a tutta la popolazione nei cui confronti dovrebbe almeno essere fatta dovuta informazione sui rischi legati all’impiego. E’ evidente che si tratta di varare la più corretta comunicazione, a cominciare da una corretta etichettatura sulle confezioni. Solamente una maggior consapevolezza dell’importanza del ritorno ad un’agricoltura davvero sostenibile potrà evitare il progredire di gravissime, nuove patologie nell’uomo.
*praticante avvocato presso il Foro di Latina