Fra scoramenti e delusioni, il vertice di Glasgow illumina il quadro globale.
Il summit di Glasgow è il “nuovo” indicatore della volontà politica internazionale di tradurre i proclami e i bla bla bla nella scelta irreversibile e globale di rifiuto delle immissioni di CO2 e di porre fine all’irragionevole sfruttamento del pianeta.
Il pragmatismo del presidente Draghi ha efficacemente illustrato sin dal vertice del G-20 di Roma la necessità di compiere uno sforzo globale capace di “… trasformare i miliardi in triliardi”, a dire che solo la Finanza potrà salvare la Terra nella sua battaglia.
La conferenza dei Colossi
Al centro della partita globale ci sono i numeri delle imponenti risorse, necessarie sia per il posizionamento delle Grandi Potenze sia per il futuro delle Economie più a rischio. Ha raccolto commenti non unanimi degli osservatori ed era del tutto impensabile alla vigilia, ma il ritrovato Asse Usa-Cina con l’inusitato incontro a due e conferenze stampa fra opposti fusi orari, è il vero fatto nuovo, mai registrato nelle 25 precedenti edizioni della COP voluta dall’Onu. Se non vale di per sé a “salvare” l’esito complessivo dell’evento, resta un grande successo diplomatico del Commissario al Clima del presidente americano Biden, quel John Kerry che in oltre un anno di strenuo lavoro fianco a fianco col suo omologo cinese era stato in grado di promuovere più di 30 vertici bilaterali, all’insegna dell’impostazione più conciliante del “siamo diversi ma lavoriamo insieme”. Questo spiega perché la Cina, pur confermandosi la solita “sfinge” sui temi ambientalisti, con basso profilo e poca iniziativa se non nel difendere strenuamente i capisaldi della sua politica energetica, ha visto il suo leader Xi Jinping non sottrarsi a siglare il comunicato congiunto con lo storico rivale. È valso a rendere esplicito alla comunità mondiale l’impegno dei due massimi inquinanti del globo (India permettendo) a limitare a +1,5°C il riscaldamento del pianeta, pur senza migliorare su questo il trattato di Parigi 2015, che Pechino continua a reputare intoccabile.
Il tavolo sulla Trasparenza
Altro baluardo fin qui inamovibile nella posizione cinese è il mantenimento degli attuali standard di rilevamento dei dati di ciascun Paese. In totale mancanza di parametri condivisi sui test di riferimento sulle emissioni di CO2, quello sulla Trasparenza dei dati è stato un tavolo di fondamentale importanza del vertice, anche se forse il meno raccontato. Senza un quadro uniforme di riferimento sui livelli di inquinamento nazionali, lo stato delle cose rimarrà indecifrabile e facilmente manipolabile dai governi più contrari. È il caso dell’India che “blinda” all’infinito l’impegno di conversione alle rinnovabili ottenendo di fissare la cessazione dell’utilizzo del carbone entro il 2070 anziché il 2050 per la zona UE. Ed è ancora il caso della Cina che resta il colosso dell’estrazione carbonifera e domanda alla Comunità Internazionale 1000 miliardi a sostegno della sua conversione alle rinnovabili.
È la Finanza a decidere le sorti. Lo spostamento dei grandi capitali mette in gioco l’equilibrio di aree troppo diverse fra loro sia in termini di sviluppo che di risorse. Non a caso, il summit ha vissuto sul costante, forsennato rincorrersi dei Rappresentanti dei Paesi delle Economie meno sviluppate, letteralmente in gara fra loro a “guadagnarsi” lo status di “Paese in via di sviluppo”. È quello che consente – ai sistemi più arretrati – di “rientrare” nei benefici concessi entro la c.d. quota storica di tolleranza di emissioni che oggi si attesta al 14%. Assicurarsi quell’area di azione per le imprese è posizione di sicuro vantaggio per quei paesi, consentendo maggiore libertà di azione a livello interno e prezioso posizionamento manageriale sul piano internazionale.
Unanimità contro il carbone
Oltre ai propositi “congiunti” Usa-Cina, un’altra “prima volta”, di valore forse maggiore, illumina COP26. È l’avere inserito nel testo finale la menzione esplicita del rifiuto di tutti i Paesi presenti alla COP26 al ricorso al carbone per gli approvvigionamenti energetici. Mai fino ad ora si era dato spazio anche solo alla elencazione di quali fossero le fonti non rinnovabili da abbandonare: da oggi il quasi innominabile “pachiderma” dei materiali fossili è stato rimosso e spinto verso la porta d’uscita del Pianeta in pericolo.
I più grandi sistemi economici fondati sulle attività estrattive hanno bisogno di più tempo di quanto lo stato del pianeta possa loro concedere e ciò spiega la strenua resistenza ad accettare restrizioni nell’immediato. Il che esalta il risultato comunque raggiunto a Glasgow, se anche i più “lenti” del gruppo siano giunti a sottoscrivere il riconoscimento della conversione dei loro piani energetici come un obbligo assoluto e non più solo un impegno. È la fine del Negazionismo, che cade come il Muro non più invalicabile ma cede il passo alla sua variante che è l’inattivismo, intralcio non meno pericoloso, con i tempi già al limite.
Su tutto, ci portiamo dietro il senso dell’incoraggiamento che il Barack Obama ha lasciato ai giovani di COP26: con l’augurio di restare “arrabbiati” ma anche positivi e capaci di analisi a tutto campo. Ché la marcia intrapresa verso il comune obiettivo non è uno sprint, ma una dura maratona.
Annalisa Romaniello
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