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Intervista 1“L’EUROPA DEI DIRITTI” è la rubrica che si pone come una vera e propria guida per i lettori di LED, pensata e curata dall’Associazione Amistades come aggiornamento costante sui temi giuridici che più incidono  a livello europeo. Si parlerà delle questioni più dibattute nell’ambito dell’Unione, gli argomenti all’attenzione del Consiglio d’Europa e sempre  con l’attenzione vòlta  alla tutela dei diritti. Le pronunce rese dalle Corti europee (Corte di Giustizia dell’Unione Europea e Corte Europea dei Diritti dell’Uomo), gli atti adottati dalle istituzioni e, ancora, tanti quesiti di attualità e rilevanza per la vita dei Paesi membri e anche quando questi interessano altre organizzazioni internazionali operanti nel nostro continente come l’OCSE e l’OSCE. Parole semplici e nessun tecnicismo per descrivere con immediatezza l’impatto che le decisioni prese a livello  istituzionale hanno nella vita sociale e personale delle comunità nazionali  e per quanti, cittadini e non, vivono e conoscono la realtà dell’Unione Europea.

di Irene Piccolo*

Un fenomeno in forte espansione è quello delle criptovalute o monete digitali.
A seconda della nomenclatura che si decide di utilizzare si mettono in risalto determinate peculiarità delle stesse: quando si parla di criptovaluta si pone l’accento sul fatto che si tratta di un mondo in cui vige lo pseudonimato giacché i possessori di tale valuta sono individuabili, ma non identificabili, tramite una stringa di codice alfanumerico generato casualmente e che costituisce di fatto la chiave pubblica di decifrazione (c.d. indirizzi bitcoin); quando si utilizza invece l’espressione “valuta digitale” si presta attenzione all’immaterialità della stessa, poiché si tratta di una valuta esistente solo e unicamente nel mondo cibernetico.
È da precisare che, sebbene in questo articolo la criptovaluta verrà considerata come “moneta”, in realtà essa può assumere altro valore giuridico a seconda della funzione svolta: è un bene mobile e immateriale (quindi quando viene “rubata” non si può configurare il reato di furto bensì quello di sottrazione di identità digitale); è considerabile commodity (come i metalli o i carburanti) in quanto bene fungibile prodotto da un’attività umana e riconosciuto da una determinata comunità quale valore; è uno strumento finanziario (securities) in quanto la valutazione dipende da domanda e offerta ed è scambiato in un mercato.

Sebbene il bitcoin sia la moneta digitale più nota, esso è solo una delle oltre 550 monete di questo tipo (si hanno ad esempio anche Litecoin, Peercoin, Ethereum, Primecoin), che – in base alle stime fatte da Coinmarketcap – hanno raggiunto una capitalizzazione complessiva di 376 miliardi di dollari, superando colossi quali ExxonMobil e JP Morgan. Nonostante spesso si pensi che l’Italia non sia à la page con le nuove tecnologie, in realtà si trova al 23° posto nel mondo con ben 53 nodi attivi, concentrati soprattutto nel nord del Paese, dove per nodi si intendono quelle “reti” composte da computer (e relativi sistemi di calcolo) di utenti privati messi in collegamento peer to peer. Difatti, una delle peculiarità delle valute digitali è che non sono emesse da una banca centrale bensì da semplici utenti privati (i c.d. miners) che attraverso appositi software coniano la nuova moneta. La sicurezza delle transazioni
dipende proprio dal numero di computer messi a disposizione: più questi sono numerosi più i trasferimenti di “bitcoin versus altre valute o beni e servizi” sono affidabili. Ciò comporta che la criptovaluta non è soggetta né assoggettabile a politiche monetarie di sorta e, se da un lato l’assenza di una banca centrale evita ab initio la possibilità di inflazione di bitcoin, dall’altro lato ciò implica per i possessori minori garanzie sia sull’esistenza effettiva di tali criptovalute sia sulla prevenzione di eventuali bolle speculative create ad hoc e cui l’eccessiva volatilità dei bitcoin (a dicembre 2017 hanno registrato il valore di 1 bitcoin = 19.000 $, con oscillazioni nell’arco della stessa giornata di 2 – 2.500 $) fa subito pensare.

D’altronde, l’esistenza e la resistenza delle criptovalute sono legate alla fiducia riscontrata tra gli utenti: esse hanno valore solamente se accettate dal mercato e ritenute utili da una comunità.
Secondo alcuni, tale fiducia è legata al fatto che le criptovalute sono sottratte a una qualunque vigilanza, con la conseguenza che gli utenti si sentono liberi di tenere qualsiasi condotta, lecita o meno che sia. Nonostante questi timori, dal 10 dicembre 2017 il bitcoin, o meglio i derivati su bitcoin, sono scambiabili con il codice XBT al mercato delle opzioni di Chicago.
Come in altri Paesi è possibile il pagamento in bitcoin di tasse universitarie o di servizi sanitari e trasporti pubblici, così anche in Italia ci sono molti negozi che, aderendo al circuito bitpay.com, accettano il pagamento in criptovalute e li si può individuare andando sul sito www.coinmap.org. I primi ATM da cui si possono prelevare e/o versare (a seconda della tipologia) contanti nel proprio conto bitcoin convertiti al tasso di cambio vigente al momento dell’operazione sono già stati installati da alcuni anni, prevalentemente nel nord Italia e a Roma in uno snodo fondamentale come la stazione Termini, all’interno degli spazi di LUISS Enlabs.
La criptovaluta, inoltre, si sta diffondendo nel mondo del gaming: è del 2014 BetVip, primo boomaker con regolare licenza ad accettare esclusivamente puntate in Bitcoin; successivamente sono stati aperti anche casinò e poker on line.

Ma qual è la posizione dell’Europa di fronte al fenomeno?
Sul fronte bancario, davanti al tentativo estone di creare una criptovaluta centralizzata e statale, il presidente della BCE Mario Draghi ha rifiutato qualunque autorizzazione, poiché in base al diritto comunitario nessuno Stato membro può introdurre una propria valuta. Al contempo, Draghi ha precisato che la BCE non è competente in base ai Trattati a occuparsi di criptovalute.

Sul fronte normativo, invece, va segnalata la IV Direttiva antiriciclaggio (Direttiva UE 2015/859), resasi necessaria in seguito al diffondersi dell’utilizzo illecito fatto usufruendo dello pseudonimato che caratterizza le criptovalute. L’Italia è stata la prima – tra tutti i Paesi dell’Unione europea – a recepirla attraverso il d. lgs. 25 maggio 2017 n. 90, in vigore dal successivo 4 luglio e che modifica in toto la normativa del 2007 (d.lgs. 231).
Tale decreto ha reso – come proposto dalla Commissione europea (COM(2016) 450 final, Proposta di Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio che modifica la direttiva (UE) 2015/849) – gli Exchangers, ossia le piattaforme in cui si scambiano le criptovalute, soggetti destinatari delle normative antiriciclaggio, considerandoli operatori non finanziari e obbligandoli a iscriversi in apposito registro come “cambiavalute virtuali”.

La posizione della Banca d’Italia
Tale decisione normativa, seppur apparentemente sensata, non è ancora giuridicamente pacifica giacché le criptovalute non sono riconosciute come valute avente corso legale; perciò, com’è possibile applicare la normativa riferita ai cambiavalute?
La posizione della Banca d’Italia, che riprende in realtà quanto specificato dall’Autorità bancaria europea (EBA), dalla Financial Action Task Force (FATF) e dalla Banca Centrale Europea(BCE), è che “le valute virtuali […] non costituiscono moneta legale né sono assimilabili alla moneta elettronica”, pur avendo indubbiamente finalità di “mezzo di pagamento”, come affermato dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, nel caso Skatteverket c. David Hedqvist (22 ottobre 2015). In tale occasione, i giudici di Lussemburgo hanno considerato fiscalmente (il caso era incentrato sul pagamento dell’IVA) le operazioni che consistono nel cambio di valuta tradizionale contro unità di valuta virtuale e viceversa come prestazioni di servizio a titolo oneroso e pertanto l’attività di intermediazione, svolta in maniera abituale e professionale, costituisce un’attività rilevante agli effetti dell’IVA.

Da ciò la nostra Agenzia delle entrate aveva desunto che medesimo ragionamento andasse fatto agli effetti di Ires e Irap (Risoluzione 72/E). Tuttavia, se nel 2016 essa aveva affermato che le persone fisiche che detengono valute virtuali al di fuori dell’attività di impresa erano esenti dal pagare l’imposta sul reddito giacché non si trattava di attività speculativa, le cose sono recentemente cambiate. Difatti, in risposta all’interpello (n. 956-39/2018) di un contribuente, l’Agenzia ha affermato che l’art. 1 del d. lgs. 90/2017 summenzionato, in attuazione della direttiva europea antiriciclaggio, ha introdotto nell’ordinamento italiano la nozione di “valuta virtuale” intesa come “rappresentazione digitale di valore, non emessa da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi è trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente”. Senza entrare nelle argomentazioni seguite dall’Agenzia, la conclusione che essa trae è che ai fini fiscali va verificato se la conversione di bitcoin con altra valuta virtuale (oppure da valute virtuali in euro) avviene per effetto di una cessione a termine oppure se la giacenza media del wallet (il portafoglio virtuale in cui vengono depositati i bitcoin) abbia superato il controvalore in euro di 51.645,69 per almeno sette giorni lavorativi continui nel periodo d’imposta. In questi casi, i bitcoin vengono inquadrati come redditi diversi di natura finanziaria, da indicare nel quadro RT della Modello Redditi – Persone Fisiche, soggetti a imposta sostitutiva con aliquota del 26%. Oltre a ciò, è previsto l’obbligo di compilazione del quadro RW del medesimo modello per tutte le persone fisiche residenti in territorio italiano che, nel periodo d’imposta, detengono investimenti all’estero e attività estere di natura finanziaria suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia, tra le quali le valute estere cui i bitcoin vengono appunto equiparati.

* PhD in Diritto Pubblico Comparato e Internazionale
Presidente di AMIStaDeS

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